GUIDA ALLA RIVISTA

mensilmente verranno pubblicati testi, articoli, poesie, disegni o qualunque espressione del pensiero relativi ad un tema che è, volta per volta, scelto dalla redazione.

il tema sarà comunicato 18 giorni d'anticipo sul sito, per dare a tutti la possibilità di esprimersi ed inviare alla redazione i propri elaborati.

Il tema del prossimo mese sarà "CAFFE'"
Vi preghiamo di inviarci il materiale entro il 12 GIUGNO 2007.

La pubblicazione cartacea della rivista è sospesa per i mesi estivi e riprenderà da settembre, ma il blog è sempre attivo, scriveteci e noi pubblicheremo le vostre parole!

parolelibere(at)gmail.com

Uno scrigno di memorie: la Prospettiva Nevskj

Figure evanescenti, richiami politici, evocazioni. Di una storia, di una cultura. Quattro chilometri e mezzo di asfalto contornati da edifici fra i più mirabili e celebri di Leningrado, capace di rievocare romanticismo e splendore degli Champs-Élysées parigini. Omaggiata in letteratura da Nikolaj Gogol' nei suoi Racconti di Pietroburgo, vive da più di un ventennio anche nel patrimonio musicale italiano grazie all'opera di Franco Battiato. Prospettiva Nevskj è un grande boulevard verso il fiume Neva, dedicato al condottiere russo Alexander Nevskj che respinse l'invasione tedesca nella mitica battaglia del lago ghiacciato. Vicenda a cui anche il genio di Ejzenštejn dedicò il film omonimo con le musiche di Prokofiev. Un coacervo di storia e di cultura, dunque, riecheggia già nel titolo di questa delicata composizione contenuta in Patriots del 1980.

I primi trent'anni del Novecento russo vengono tradotti in poco più di tre minuti di note e parole: con espliciti richiami alla rivoluzione e ai movimenti artistici (i diaghileviani Ballets Russes e Nijinsky, Stravinskij, il già citato Ejzenštejn), ma anche con sospese visioni, lasciate nel finale al giudizio e alla fantasia dell'uditore, attraverso un vago riferimento ad un maestro. Probabile allusione a George Ivanovitch Gurdjieff, filosofo greco-armeno militante a Pietroburgo intorno alla fine degli anni Dieci, in cui Battiato aveva trovato un vero maestro per la forte assonanza con il proprio pensiero. A Gurdjieff si attribuisce aver portato in occidente la teoria dell'Enneagramma, dopo essersene imbattuto negli ambienti dell'esoterismo islamico e della tradizione sufi, e di aver influenzato Oscar Ichazo e i più importanti esponenti della Gestalt fra cui Fritz Perls e Claudio Naranjo. L'espressione "Trovare l'alba dentro l'imbrunire" è dunque una probabile eco degli insegnamenti del maestro greco-armeno, che propugnava la possibilità di trovare una nuova vita (l'alba) attraverso un cammino di ricerca della verità, che conduca alla consapevolezza e ad un livello di vita superiore che va ben oltre la morte (l'imbrunire).

Franco Battiato ha voluto ricordare con questa finestra sul passato un'immagine di un posto lontano, di una vita lontana, che ha però influenzato la cultura di tutti noi.

Il mondo gira, l'esistenza fluisce veloce, volti, anime si rincorrono in vie dai nomi dimenticati, dietro cui, però, si occulta una storia, un vissuto, uno scrigno di memoria, che non possiamo gettare al vento e dimenticare.


Davide Pampana

Strade di sonno senza fame!!!

Strade di sonno senza fame!!!

Non ho più strade da sfogliare

ho perduto i miei quaderni

Non ho più fame da dipingere

ho perduto le mie tele

Non ho più sonno da ascoltare

Ho perduto la mia musica

Troverò solo me stessa

in un angolo della testa

senza dritte senza curve

solo cieli da guardare

nelle mie parole libere

senza senso

sono

io

Federica Bello

sulla via di casa

LUIGI

I capelli percorsi da mille fili argentei che si muovono disordinatamente ad ogni movimento del capo. Gli occhi sempre allerta, spesso arrabbiati, certo consapevoli, ma mai arrendevoli. La barba folta e bianca che gli avvolge il viso quasi proteggendolo dal mondo esterno, quello contro cui combatte. Le mani forti e nervose che operano sicure contro le assurdità.

Questo è il ritratto di un uomo, questa è la storia di una vita dedicata a delle idee prepotenti, che non sanno stare zitte dentro la testa.

Giovane ribelle negli anni ’60, capo del servizio d’ordine del movimento studentesco milanese, per ideali a cui in quegli anni non si poteva non aderire, per incoscienza giovanile, per principi che dovevano ancora levigarsi e strofinarsi con la realtà.

Poi gli studi, la laurea in medicina, la decisione di partire per mettere a frutto gli anni trascorsi sui libri: Stati Uniti, Gran Bretagna, Sudafrica, a fare trapianti di cuore.

Negli anni novanta è impegnato con la croce rossa nelle zone di guerra, porta aiuto in Pakistan, in Etiopia, in Tailandia; poi a Kabul, in Perù, poi ancora a Kabul; nel 1993 in Somalia. Nel 1994 in Bosnia. Anni di esperienze, di sofferenze, di realtà concrete.

Allora gli ideali e la volontà si scontrano con i problemi quotidiani: con la lentezza delle grandi organizzazioni umanitarie, con la burocratizzazione dei rapporti internazionali, con le assurdità a cui non sembra possibile porre rimedio.

Nella primavera del 1994 la decisione di ribellarsi ancora, di fondare un’associazione tutta sua, che di suo ha la testardaggine e la libertà. Così riunisce un team di livello internazionale: medici, infermieri, chirurghi, volontari, e nell’agosto dello stesso anno, riapre l’ospedale della capitale del Ruanda, Kigali, precedentemente devastato dalla guerra.

Ora Luigi ha progetti concreti, opere solide da costruire, ma non intende dipendere da aiuti governativi, non ha ancora imparato ad abbassare la testa: vuole esprimere libere opinioni sui conflitti che lo circondano, che ha imparato ha detestare.

Per lui nessuna guerra è legittima. Il sangue è sempre sangue, ma soprattutto TUTTI hanno diritto ad essere curati.

La sua organizzazione cresce di anno in anno e sale alla ribalta delle cronache internazionali, soprattutto negli ultimi anni con i conflitti in Afghanistan ed in Iraq: perché quando tutti scappano da Kabul, lui arriva; quando Baghdad è messa a ferro e fuoco, lui viene, ed opera.

Non è un eroe, non è un mito, non è un santo.

E’ un uomo testardo come ce ne sono pochi, che ama quello che fa e lo fa perché non può farne a meno.

C’è chi lo odia, chi lo ama, chi lo accusa di eccessivo protagonismo o di manie di potere.

Forse è vero. Del resto è un uomo, con tutti i suoi difetti.

Ma quel piccolo uomo, grazie a quei difetti, è riuscito a salvare più vite di quante lui stesso se ne può ricordare, ed ha ricostruito speranze dove altri uomini, con altri difetti, hanno portato solo macerie.

Se oggi in molte zone di guerra esiste un ospedale o un centro di aiuti è merito suo, delle sue idee prepotenti che non hanno guardato in faccia a nessuno, che da sempre vogliono e pretendono di essere ascoltate.

Questa è la storia di un uomo chiamato Luigi Strada.

Per gli amici, e il resto del mondo, Gino.


Rachele Massei

On the road

Come bere un bicchiere di tequila. Bum bum. Così è stato scritto On the road: tutto d’un fiato.

On the road, a scapito di ogni maccheronica quanto improbabile traduzione. Perché non si può chiamare “Sulla strada” un libro che racconta di uno spirito nato in america e poi trasferito qui. Lo spirito del viaggio. Splendido, romantico, autodistruttivo e sordido viaggio. Strada droga, meta invisibile. In realtà la meta è il viaggio stesso, la voglia di fare i vagabondi, forse di scappare da qualcosa, forse trovare se stessi fra il puzzo di benzina e i vapori dell’asfalto. On the road è stato scritto, si dice, in due settimane, sotto effetto di benzedrina. Un lungo inesorabile capitolo, tutto di seguito. Che poi editor incompetenti hanno diviso in tanti capitolini. Jack Kerouac ne è l’autore. Simbolo di una generazione intera di zingari felici con il sacco a pelo sulle spalle, nessun soldo in tasca e tanti sogni i testa. Forse lui nemmeno lo voleva, diventare un simbolo.

Lo spirito intrinseco del libro si può condividere o meno, ma la lettura ce lo sbatte addosso comunque. È come immergersi in una vasca fatta di parole, con turbini improvvisi dell’acqua, che fanno girare la testa. A volte sinceramente stancano, perché è difficile leggere la frenesia, la smania, l’ardore di qualcuno che non riesce a stare fermo, che non ha casa, che ha solo una meta.

La strada.

Bruschi Marco

Storia di un viaggio

Avevamo due buste di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di acido superpotente, una saliera mezza piena di cocaina, un'intera galassia multicolore di eccitanti, calmanti, scoppianti, esilaranti. E anche un litro di tequila, un litro di rum, una cassa di birra, mezzo litro di etere puro e due dozzine di fialette di popper. Non che per il viaggio ci servisse tutta quella roba, ma quando ti ritrovi invischiato in una seria raccolta di droghe, la tendenza è di spingerla più in là che puoi.

Si vero?

Bella citazione.

Non ho niente di tutto questo, ma la sensazione di trovarmi in una stanza che gira piena di dinosauri è la stessa.

Voglio alzarmi e partire, voglio prendere il mio zaino e non far funzionare più il cervello, muovermi come solo il mio istinto possa fare,

vedere gli sfondi del paesaggio cambiare colore, vedere la strada che si alza e si abbassa e diventa sempre più lunga stringendosi fino a diventare larga quanto un mio piede.

Riesco a non pensare, ed altro ancora, sto male, lo stomaco si sta ribaltando.

Trovo un compagno di viaggio, mi si affianca, un vecchio uomo, il passo lento sicuro, lo sguardo fisso nel vuoto, cerca sempre di portarmi avanti e farmi fare le scelte giuste, ma da uno che ti dice “Il Cane Si è Fatto Il Popper” non accetti insegnamenti di sorta.

Scrivere di getto non è facile, trovare la voglia di fare qualcosa, per se che piaccia agli altri, ma senza offendere nessuno.

Sto continuando a muovermi ormai per inerzia, uccellini mi volano intorno sempre più euforici, mi gira la testa.

Comincio a delineare i volti delle persone, non vedo più piante e cespugli fosforescenti lungo la strada.

Credo che smetterò di scrivere, credo che andrò in bagno a vomitare. Credo che prestò avrò altre esperienze del genere da raccontare…

Spero di no.


Franchini Marco-Alberto

La strada verso te

Tesoro,

Quanti credono che l’uomo nasca e muoia solo, quanti credono che l’amicizia, l’amore siano immaginarie sensazioni di un istante?

Per me non è così, è immaginazione il fatto che non esistono ponti fra l’io e il tu, che ognuno cammini solo ed incompreso.

È proprio l’opposto: il legame che gli esseri umani hanno in comune è molto più grande e importante della sfera che ciascuno ha per sé solo e per cui si distingue dagli altri.

Io non sono più nulla, lo capisci?

Vuoi capire che se tutto il mondo fosse per me, se mi fosse donato, io non colmerei il vuoto che la tua mancanza mi procura, perché io esisto con te, vivo se tu vivi, soffro se tu soffri, piango se tu piangi.

È il tuo sangue che scorre nelle mie vene, il tuo odore che io sento, il tuo ricordo nei miei sogni.

Questo provo per te.

È vero, non so se sia amore, parola arbitrariamente utilizzata, troppo spesso e nel modo più sbagliato; gli uomini amano mangiare, amano far sesso, amano comandare, amano ferire, allora se anche questo è amore io non ti amo.

Se invece l’amore è un bianco ruscello che scorre nei giardini della luna, dove ogni giorno si fa festa a te, e attorno a questa gira un grande sole. E gli occhi tuoi sono questo sole, allora ogni giorno andrò alla sua foce, mi spoglierò dei miei vestiti e sarò sua nuda proprietà. E non permetterò che alcun uomo possa contaminarlo, aspettando te, aspettando che decida anche tu di abbandonare i costumi che ci sono stati imposti da per essere libero di amare completamente ed unicamente.

Ti prego di amare, sempre e comunque, di vivere d’amore, di cercarlo negli altrui sguardi senza sosta, perché se la dura realtà dovesse presentarsi alla porta del nostro giardino segreto, tu potrai guardarla e intenderla diversamente, e se ci dovesse riportare da lei ed inevitabilmente separare, saprai di ritrovarmi al mercato degli schiavi imprigionata in quelle pesanti catene che solo amandomi avrai potuto spontaneamente offrirmi.

Sguardi viandanti

Quando Friedrich dipinse il suo viandante lo lasciò di spalle.

Noi non vediamo i suoi occhi.

Possiamo solo immaginarne lo sguardo perturbato e commosso che si posa sul mare di nebbia.

Un mare infinito, denso d’aria e di nuvole, che vorrebbe prendere d’assalto la rupe su cui il solitario viaggiatore è arrivato.

Non sappiamo da dove, né come.
Non ci sono strade. Le sue strade sono la sua inquietudine che non gli dà riposo.

Così , capita d’incontrare persone che hanno sguardi viandanti.

Poeti, musicisti, ladri, puttane.

Di loro si dice che soffrano il male del tempo, il dolore della memoria; questi ricordi fantasmi che spingono alla fuga e scavano, scavano termitai di ossessione.

Fate pure venire il medico dei pazzi a visitarci con tutta la sua scienza e non avrà parole.

Disegnate le vie che corriamo, portatemi le mappe del mondo, la geografia di ogni spazio abitato, spingetevi perfino nei cortili abbandonati e nei vicoli più sordidi, non troverete nulla.

Noi abitiamo una Harlem dimenticata, di polvere e pianto e giardini di là dal tempo per le nostre melodie.

Siamo i padroni delle ombre, negromanti colmi d’amore e stupore lungo le strade dell’innocenza.

Cavalchiamo le forme dei sogni e il profumo del vento sulla steppa infinita.

Strade, tappeto d’immaginazione tessuto nella nostra sensibilità.

Le Vie dei Canti, la creazione della Terra e una musica aborigena per le nostre traiettorie migranti.

Edipo al trivio di fronte al padre Laio e le baccanti in corteo su strade di montagna: oreibasìa dell’anima.

Le passeggiate solitarie di Robert Walser, scrittore dei silenzi.

Le strade della storia e quelle interrotte dai muri.

Quanto tempo senza poter camminare, senza poter pensare!

E in tutto questo, noi, noi, noi!

Siamo vie tacite e assopite dopo la pioggia, polvere innamorata che tra mazzi di carte e partite giocate sulla scacchiera della vita cerca di divinare una meta, inscritta ai confini del nostro io.
Claudia Ciardi

Per Parole in libertà

LE STRADE DI UN UOMO

Devo ammettere che il tema di questa edizione del giornale mi ha messo molto in difficoltà…e mi ha spinto a riflettere; senza dubbio il cinema, la letteratura, l’arte e i modi di dire offrono migliaia di spunti sull’argomento da commentare, ma riflettendo sull’argomento mi sono improvvisamente ritrovato a pensare:ma quanto è importante la strada per l’uomo? E quanto l’uomo è padrone di scegliere la propria strada?

Un antico mito greco parla di come ad Achille fosse stata data la scelta, in gioventù, di scegliere tra due strade che avrebbero anche rappresentato la sua vita futura: una lunga ma insignificante…e una breve ma intensa.

Amo molto la mitologia, ma ho sempre pensato che questo racconto fosse troppo riduttivo….come è possibile ridurre la vita di un uomo in due uniche scelte? E’ come dichiarare che l’esistenza di un qualcuno possa essere definita da un'unica scelta.

Non ho avuto una vita segnata da incredibili eventi che mi hanno spinto a decisioni epocali…ho avuto una vita normale, come la maggior parte delle persone…eppure di certo a soli 26 anni mi sono ritrovato ad affrontare numerose scelte che per quanto possano sembrare insignificanti hanno guidato la mia vita ad una precisa direzione.

La verità è che non esistono decisioni stupide (tranne magari tra cioccolato e pistacchio), perché ognuna di esse potrebbe immetterci verso un cammino che ci segnerà profondamente.

Quanto detto da me fino ad ora potrebbe far pensare che sono un convinto sostenitore della teoria che l’uomo è padrone del proprio destino….ma non è esattamente così.

In realtà penso che possiamo scegliere una tra le opzioni (seppur molto varie) che il nostro personale microcosmo sociale ci può offrirci: tutte le nostre decisioni sono estremamente influenzate dall’ ambito sociale in cui viviamo, perché è in esso che cresciamo ed è in esso che si forma la nostra personalità.

Anche nel caso di soggetti che ad un certo punto della loro vita prendono decisioni che sconvolgono completamente il loro mondo, la maggior parte delle volte tali comportamenti non sono che il frutto di un qualche elemento esterno.

Credete davvero che l’avvocato che ad un certo punto abbandona tutto per andare a fare il missionario in Amazzonia sia totalmente padrone della sua iniziativa? O invece qualcosa lo ha spinto ad una tale conclusione? Forse si è reso conto che il mondo in cui viveva era solo superficialità e meschinità…ma credete che sarebbe arrivato alla stessa conclusione se fosse vissuto come un contadino in un paesello di 3000 abitanti?

Personalmente amo molto la strada, non soltanto come simbolo del tragitto esistenziale, ma anche nella sua manifestazione fisica…..percorrerla in solitudine, perso nei propri pensieri, è una sensazione di cui nessuno dovrebbe mai privarsi…..è come se Dio avesse fermato tutto solo per te, per farti sentire anche solo per un istante padrone del tuo destino.

Non so bene come spiegare questa sensazione, so solamente che ci sono dei momenti in cui sento un irrefrenabile bisogno di andare e muovermi, senza una meta precisa, ma conscio che quando sarà il momento di fermarmi e di tornare a casa lo saprò.

Inizialmente era mia intenzione parlare di quanto un uomo sia padrone della propria vita ma poi le parole sono iniziate ad uscire da sole, ed in fondo è giusto che sia stato così….la strada rappresenta la libertà, ed è giusto che un articolo su di essa non abbia alcun freno.

E se per caso a qualcuno il mio articolo può sembrare delirante e privo di coordinazione contenutistica posso dire soltanto che mi dispiace, che non era mia intenzione, e ricordando loro che, come recita un vecchio detto, ”La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.

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il tema sarà comunicato 18 giorni d'anticipo sul sito, per dare a tutti la possibilità di esprimersi ed inviare alla redazione i propri elaborati.

Il tema del prossimo mese sarà "STRADA"
Vi preghiamo di inviarci il materiale entro il 12 Maggio 2007.

Per ragioni di spazio solo alcuni pezzi potranno comparire sulla copia cartacea della rivista, che potete trovare alla sala da tè "Madamadorè" in via S.Martino 90 (Pisa).

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VI PROPONIAMO I PROSSIMI TEMI...

Ragazzi votate il tema del mese di giugno.

Scegliete fra questi:

1 Caffè

2 Città

3 Contrario

4 Etero/Gay

Ci raccomandiamo: entro il 20 maggio!

RESPIRO DI NOTTE

Ho freddo.

Buio.

Assordante: silenzio.

Ho paura. Paura del tempo che passa, paura di guardarti negli occhi, paura di farle del male, paura di sprecare i miei giorni più belli, di sprecare me. Di finire per odiarmi, di odiarti, di odiarla.

Capelli di fuoco, occhi di cielo, labbra di miele. Lei è splendida, dolce, mi ama.

Ma, allora, perché?

No, non dirmelo. Lo so, è colpa mia. Non sono abbastanza forte, me lo dici sempre. Sei cattiva. Io, ti odio. Ti detesto, con tutte le mie forze. Davvero.

Ma, allora, perché?

Perché forse tutto quello che mi hanno insegnato, tutti i principi morali del mondo, non valgono niente. O, almeno, non valgono niente davanti al tuo seno, alla tua figura sinuosa, a quegli occhi che ti sussurrano sensuali proposte.

Va bene, hai vinto. Ti prendo, ti amo, ti stringo fino a farti male. Farò chiudere di piacere le tue palpebre, assieme alle mie tremare le nostre spalle, aprire di spasmo le nostre bocche, all’unisono.

E mi imprimerò nell’anima il piacere della fusione dei nostri profumi, concentrati e tesi verso il cielo fatto di passione.

E poi?

Cosa può rimanermi dopo quella singola notte?

Ora invece ho qualcosa di tangibile e puro e spirituale e bello. Bianco, lindo. Non come te, nera di tenebra, i capelli corvini intrecciati di proposte maledette.

Ti odio. Ma odio ancor di più me stesso sul letto di morte, piangente e disperato, a bramare la tua pelle vellutata. Pronto a barattare una vita intera per quella. Singola notte.

Vi prego, qualcuno faccia qualcosa, qualcuno decida per me. Uccidetela! Si, uccidetela. Non mi importa chi. Una delle due. È lo stesso. Toglietemi da questo limbo di indecisione perenne.

Per favore.

Oppure no, meglio così: uccidete me. Uccidi me voglio che sia tu a farlo con baci chiamati veleno gesti chiamati respiro carezze chiamate fremito e sguardi chiamati abisso, fallo tu ragazza chiamata! Notte.


Marco Bruschi

L’ULTIMA NOTTE

Una nuova cavalleria è apparsa nella terra dell'Incarnazione...
Essi non hanno paura del male in tutte le sue forme...
Essi vanno in battaglia non già coperti di pennacchi

e fronzoli, ma di stracci e con un mantello bianco...
Essi non onorano fra loro il più nobile, il più valoroso...
Essi attendono a qualsiasi lavoro a loro comandato in silenzio...
Essi si aiutano l'un con l'altro nella dottrina insegnata dal Cristo...
Essi sono i Cavalieri di Dio....
Essi sono i Cavalieri Templari.


Jacques de Vitry, ‘Histoire des Croisades’


Nato dall'unione di nove Francesi, l'Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone nacque intorno al 1118, con a capo il Gran Maestro Hugues de Payeni.
Baldovino II concesse loro di risiedere in quello che si credeva una parte dell'antico Tempio di Salomone, da questo derivò il nome di Cavalieri del Tempio o Templari.

Grazie alla loro abnegazione, alle gesta eroiche in battaglia, al loro sacrificio divennero ben presto modelli militari e spirituali.

Tuttavia è affascinante pensare che la neutralizzazione integrale dei templari si compì nel giro di una notte, grazie a uno scaltro colpo di mano dei servizi segreti francesi, che con un pretesto fiscale (la riscossione delle decime) s'introdussero nelle sedi dei Tempi da un capo all'altro della Francia. Ciascun cavaliere si lasciò arrestare senza opporre resistenza, certo di poter contare sulla forza occulta ed invincibile degli altri confratelli, non immaginando che in quella stessa notte del 13 ottobre 1307 venivano anch'essi arrestati. Il mattino di questa funesta giornata, ben quindicimila Templari vennero arrestati, tra cui Jacques de Molay, il Gran Maestro dell’Ordine. Fu così che la cavalleria templare fu annientata grazie a una trappola concepita da un re cristiano in poche ore. Segregati nei sotterranei di remoti castelli, i cavalieri dal bianco mantello scomparvero.

Sottoposti a indicibili torture, i Monaci confessarono quasi tutte le accuse e con una bolla papale di Clemente V, sottomesso alla volontà di Filippo IV, fu ratificato lo scioglimento del Tempio.

Alessandra Torraco

DI NOIA E MANDARINI

Di nuovo qui a compilare la lista dei buoni propositi. A scrivere cose importanti che non farò.

Evidentemente arriva un punto della vita in cui scegliere. Decidere se scriverne altre mille di liste così e consegnarsi alla cecità, oppure riconoscere davvero che alcune cose non saprai mai farle.

E’ così, non sarò mai un bravo ragazzo. Pronto sempre per tutti, a tollerare, a trangugiare, a tacere. Ed è così, al diavolo l’eroe che sa sempre dire la verità e scegliere la via giusta. Ho costruito tanti di quei miti su di me che merito libri interi di antropologia. Ed in questa notte comune, fatta di noia e mandarini, crollano tutti come vetri sottili, in pochi minuti di lucidità. Buffo, il mea culpa di carta di un uomo su sei miliardi, quanto può valere? Nulla, meno di zero, è un’infinitesima parte d’infinito che si guarda allo specchio. Nelle pieghe delle vite degli altri quante altre bugie simili, quanti isterismi e segreti stupidi e preghiere rantolate e pietosi giri di parole e seghe mentali per non guardarsi in faccia? Eppure non ci capiamo. Mastichiamo le stesse frustrazioni e sputiamo lo stesso sbafo, ma tutto questo è inutile: l’uomo che si guarda intorno non penserà mai di vedere fratelli. Invece voi siete i miei fratelli di schifo. Dovrebbe unirci, renderci umili questo, ma ci allontana, ci inorgoglisce. Perché nei nostri occhi c’è sempre un alone di fiabesco, che si trasporta sugli oggetti oltre la cornea. Godiamo di questa dimensione fittizia in cui le speranze e le vergogne vanno a braccetto, e una balaustra dà sul nostro smagliante futuro di gente migliore.

Ho abbracciato il termosifone e guardo. Fuori, la notte non è nient’altro che notte. Affido questi pensieri inutili al lenzuolo, ed i miei occhi al buio.


Alberto Giannese

NOTTE DA NON DORMIRE

Notte da non dormire. Da stare svegli. Da stare in due.

È la mia ultima notte qui. Nella mia terra, nella mia casa. Dal mio giardino guardo verso il cielo: vedo la costellazione del Cigno, vedo le Pleiadi, la costellazione della Lira.

Orfeo, invoco sussurrando il suo nome, stasera dovrà far vivere alla mia regina le stesse sensazioni di quando ci amammo per la prima volta.

Quanto tempo.

Non scorderò quella notte: i neri capelli lucidi, la pelle di miele, il suo fuoco. Non scorderò che quella notte ho amato la dea Afrodite.

Ed era tra le mie braccia.

Nella nostra stanza le tende leggere sono mosse dal vento. Zefiro mi fa compagnia.

Mi siedo sul letto che ho costruito per noi.

Ed il suo corpo si delinea.

Vedo la sua figura dietro la tenda, i fianchi avvolti dalla bianca seta. I capelli sciolti le ricadono sulle spalle, abbronzate dai raggi di Apollo. Il seno marmoreo invidiato dalle grandi Regine.

I suoi occhi riflettono la luce delle stelle. La sua ombra mi si avvicina e mi avvolge, poi le sue mani.


Sussurro il suo nome: Penelope.


Notte da innamorare: che dolce vino le braccia sue.

Chissà se tornerà.

So solo che questa notte dovrà lasciargli un ricordo indelebile nel cuore.

Atena, tu che difendi i valorosi, proteggilo.

E tu Afrodite, stanotte dammi la forza per farlo mio come se fosse la prima volta.

Mi profumo con il mio olio più prezioso, sciolgo i miei capelli e cingo i fianchi con la mia seta più bella.


Ancora oggi ogni volta che incontro i tuoi occhi sento lo stesso brivido di quella notte.

Tu re di una piccola isola, ma arguto e forte e scaltro. Non sarei potuta essere di nessun altro se non tua.

Domani partirai per una guerra. A te sarà chiesto molto. Potresti non tornare, ma stanotte ti farò sentire cosa vuol dire essere vivi per tutto il tempo in cui non sarai al mio fianco.

Il ricordo di questa notte ti farà vivere per tutto il tempo che servirà per riportarti a casa.

In questo letto che hai creato per noi, stanotte sarò tua come se fosse la prima volta.

Il tuo corpo sul letto trema, so che mi hai vista.

Le mie mani ti accarezzano le spalle, forti del peso dell’aratro e dell’armatura.


Sussurro il tuo nome: Odisseo.


Marco-Alberto Franchini

21 ANNI

La Notte è… ORA. È ora perché sono le ore 5 di un imprecisato giorno, è ora perché ho 21 anni. È ora perché ora, alle 5, non so come mi sveglierò domani. È ora perché ora, a 21 anni, non so cosa sarà della mia vita. La notte è crisi, nel significato greco di cambiamento: è speranza che le cose domani migliorino ed è paura di svegliarsi domani e di trovarle cambiate. Qualcuno l’aspetta, qualcuno ne ha paura, altri, come me, la vivono per esorcizzarla. Con rispetto. Con la speranza che, come ogni giorno, la Luna, condannata ad avere nel Sole un fidanzato che non vedrà mai, dovrà tenere per sé i tuoi segreti. Confidente che non racconta, amica che non giudica, ragazza che illumina abbastanza da mostrarti cosa hai intorno, ma complice che ti occulta agli altri. Luce soffusa che prepara al giorno, la Notte è l’Equo Giudice che chiude nel suo silenzio tutto ciò che urla nel giorno ma fa gridare di voce inusitata chi, alla luce del sole, pare non aver suono. È la rivincita di una matita che cadendo ti sveglia e che vendica, in un sol colpo, tutte quelle che di giorno, timide e quasi mute, lasci sul pavimento della tua università. Così, cadute.

La notte è principio di tutto: “La luce fu”, ma la notte era già, prima di Dio. Perché è anche mancanza e assenza, è il buio di ciò che non conosciamo ma che viviamo, paura atavica dei bambini e dell’Essere a loro più simile, che inventa il sole per esorcizzarla. Può essere un film dell’orrore se vissuta irresponsabilmente, sporcandola di droghe, alcool o della propria arroganza alla guida di una macchina: Lei non racconta nulla al giorno, ma sa vendicarsi se infangata. È film romantico se vissuta a letto con chi ami… si adatta a chi La vive, ti rispetta se La rispetti. Sa addirittura essere set dei tuoi di film, rappresentando nei sogni ciò che hai in mente, cullando i pensieri che hai quando vai a dormire e plasmando quelli che speri che ti porti sotto forma di consiglio. Magari domani, all’esame.

La notte……..ERA. Sono le 6 e nasce il giorno, ne passeranno altre e io non avrò neanche più 21 anni, ma son sicuro che comunque, Lei, come sempre fedele, non racconterà queste parole al Sole.


FRANCESCO OCCHINEGRO

NOTTE EBBRA

Mi sono accostata al ciglio della strada perché il tuo pensiero non mi permette di guidare. Una boccata d’aria e poi torno a casa.

Ho i tuoi occhi negli occhi, il tuo profumo nelle narici, le tue parole nelle orecchie. Parole strane questa notte.

Confuse, barcollanti, ubriache, come te.

Odio il sapore di sale bagnato che si mischia a quello della sigaretta, ma continuo a fumare.

Un brivido mi scuote le ossa. Chiudo gli occhi, di nuovo la tua immagine davanti. Tu carponi per terra.

Io ti sorreggo, cerco di aiutarti. Ma tu ti ribelli, ti agiti, alzi la voce.

Amore, non è colpa mia. Ma non so come convincerti.

Un malessere fisico ti fa accasciare al suolo, e al fiume delle tue parole si sostituisce un miscuglio di succhi gastrici e vino.

Ti trascino via. Io la debole. La donna.

Mi vergogno di te e a te mi sottometto. Ma più cerco di aiutarti più il tuo corpo si ribella.

Incrocio il tuo sguardo. Pupille affogate in una tempesta d’odio e gelosia.

Le macchine passano di rado su questa strada di periferia e la notte fa sembrare tutto così silenzioso.

È così distante adesso il motivo del tuo rancore.

Musica, gente, luci accecanti. Qualche parola di troppo con uno sconosciuto. Non volevo amore, ma tu eri impegnato, i riflessi rubino del tuo calice ti ammaliavano più di me.

Una brezza leggera accarezza il mio volto. Non fa freddo stanotte.

Ma da domani scenderà il gelo.

Con una spinta mi hai scaraventato via, e so che non permetterai tanto facilmente che mi riavvicini.

Io testarda ci proverò, come sempre, e non so neanche bene perché.

Adesso è meglio andare. La luce del sole rischiarerà tutto. Forse anche il tuo animo.

Salgo in macchina e in assenza di te cerco il tuo CD, quello che mi hai regalato. Come è finito sotto il sedile?

Rialzo la testa e due fari accecanti mi annebbiano. Il sole è gia qui?

Prima il rumore o prima il dolore. Non ricordo più.

Un fascio caldo nel buio della notte, vetri rotti, il clacson incantato. Ma non il mio.

Riesco ad aprire un varco nella scatola metallica in cui sono imprigionata, ma lo stordimento non mi permette di vedere, sentire, capire.

Annaspo nel fumo e nell’aria, con le mani, con i piedi. Mi avvicino ai due fari nemici e presuntuosa ne scopro il volto.

Tu.

Io carnefice per mano tua. Tu assassino per intralcio mio.

Amore, non è colpa mia. Ma non posso più convincerti.

Amaramente scopro che non basterà il sole di domani a sciogliere il gelo di questa notte, ubriaca d’assurdità.

Rachele Massei

VAMPIRI: I FIGLI DELLA NOTTE

Di tutte le creature della notte che infestano i sogni e le paure del genere umano, il vampiro è sicuramente la più nota e affascinante, probabilmente per la forte componente sessuale che caratterizza la figura (si dice che il bacio di un vampiro sia estremamente piacevole, frutto di un misto di desiderio e paura).

L’archetipo del succhiatore di sangue umano rivela la sua presenza fin dalla mitologia più antica, ma è solo nel 1892 che questa figura entrerà realmente nell’ immaginario collettivo, grazie all’opera dello scrittore irlandese Bram Stoker: ‘DRACULA’.

L’opera (un romanzo epistolare), narra le vicende di Jonathan Harker e dei suoi tentativi di salvare la sua promessa sposa dalle brame di questo demone, che in lei rivede il suo amore perduto e che desidera condividere con lei l’eternità della non morte.

Il libro, pur non essendo eccezionale nel suo complesso, ha il grande merito di consegnare al mondo un grande personaggio, una creatura che, pur essendo ormai qualcosa di totalmente staccato dal genere umano, si sente sola e il cui cuore, anche se corrotto da secoli di malvagità, brama ancora l’amore : ci viene così proposto un mostro umano, con cui è possibile l’identificazione e che non ha come unica funzione quella di attirare il disprezzo e l’odio del lettore.

L’idea del libro parte peraltro da un personaggio realmente esistito : il principe rumeno Vlad Tepes, le cui crudeltà avevano spinto il popolo ad ammantare il suo nome a quello di un demone sanguinario.

Pur essendo da attribuire all’ opera di Stoker il merito della consacrazione definitiva del vampiro, essa esisteva fin da epoche antiche, tanto da essere presente perfino nella religione ebraica.

Si narra infatti di come Dio diede come prima moglie ad Adamo una donna di nome Lillith e di come, essendo essa ritenuta indegna e pericolosa, fosse stata allontanata e sostituita da Eva, creata volontariamente da una costola di Adamo per garantire un miglior risultato. Lillith però, con l’aiuto di Lucifero, riuscì a fecondarsi del seme del primo uomo, generando la stirpe dei vampiri.

La figura del vampiro, essendo molto complessa, è costituita da numerosi e affascinanti elementi ma tra essi sicuramente la componente più interessante è il suo profondo legame con la notte: la maggior parte dei mostri che popolano il mondo fantastico (e purtroppo anche quello reale), tendono ad agire nelle tenebre per una maggior facilità d’azione, ma per il vampiro l’oscurità è qualcosa di essenziale...è parte di lui. Ciò perché essa non è altro che uno specchio della sua anima: la notte può essere minacciosa, ma allo stesso tempo seducente; può essere fredda e spietata, ma allo stesso tempo protettiva e rasserenante, ma soprattutto trasmette perfettamente l’elemento fondamentale su cui si basa l’archetipo del vampiro: l’eterno senso di solitudine, che rappresenta la sua vera dannazione.

Paolo L'Incesso

NOTTE: PENSIERI DI HERNAN VELASQUEZ

Quello che mi stupisce è che le persone hanno paura del buio.

Voglio dire, e la luce?

Mah?

Chi ha paura della luce, che può accecare, che può bruciare, che può uccidere?

Sarebbe più logico, no?

No.

La gente ha paura del buio perché il buio nasconde.

Il buio, figlio della notte (qualcuno avrebbe detto amante), si cela dietro i suoi

veli di seta scura, si aggrappa alla sua sottana, piagnucola e i sui piagnistei diventano

per noi scricchiolii, fruscii, suoni che non trovano corrispondenza nella memoria e si depositano

nella fantasia.

E io vi dico ben venga la notte! il buio non mi spaventa, è un frignone!

Ben venga la notte, e con lei la luna.

Io amo la luna, il suo modo di curvarsi come una parola d'amante...piegati dolce luna...

cala su di me, monta sul mio destino. Voglio una notte fare l'amore con la luna, come non so, ma

la notte è una padrona gentile, per chi come me, è suo schiavo devoto.

Schiavo, sì, della mia notte...una notte che è un legame, una notte che è lama sottile, la notte

cremisi di quando sono nato, da quando ho visto il buio.

Notte cremisi, notte identica da allora, una sola lunga notte.

E parola mia, se c'è qualcuno che non ha paura del buio, io lo stimo.


E di solito, me lo mangio.


Rev. Hernan Velasquez

NOTTE STELLATA – DA TENTATIVI DI PSICOANALISI NELL’ARTE –



Il pennello di Vincent Van Gogh si muove veloce sulla tela e dà vita ad onde azzurre con tratti di bianco , non dipinge il mare , ma un cielo stellato in una notte serena .

È probabile che il pittore stia guardando la sua anima o più propriamente la sua realtà psichica .

Il vorticoso cielo stellato sovrasta un paesino tranquillo; questo paesino, parlando in termini freudiani, potrebbe rappresentare l’IO del pittore, sottoposto alla violenza di un cielo che possiamo interpretare come il suo ES.

L’ES secondo Freud è: “Un calderone di impulsi ribollenti” che obbedisce solo al PRINCIPIO DI PIACERE, ed in questo dipinto riusciamo a vedere come questi impulsi si agitino nella mente dell’autore schiacciando il suo IO così evidentemente fragile: nel momento in cui l’ES riesce ad imporsi sull’IO si originano forme di nevrosi conflittuali come quella da cui, si può ipotizzare, fu affetto lo stesso Vincent Van Gogh.

Federica Bello

Sotto l’occhio allusivo della luna

Le emozioni che non sono

catturate dal re

della foresta riescono

ad un chiaro

di radura e lì,

dopo aver attinto

l’acqua mutila

del fiume sotto l’occhio

allusivo della luna, compiangono

da una parte il giorno

irraggiungibile, e dall’altra

quel destino

-loro proprio- che incatena

le creature alla fortuna.

Luciano Utrini

Panismo Notturno

Ventaglio di stelle

ho caldo stanotte

lo sventolo al petto


profumo di monti


scorre il rivo

ssccscccscccsccc


qualche ciottolo

vestito d’umido argento

scivola via

chissà dove poi…..

(zampilli rampanti)


m’abbraccia

una brezza

fuiuifuiuifuiui

solletica le mie orecchie


sorrido

chiudo gli occhi

credo

casco in mano alla notte

è soffice la notte

mi accarezza con mani di vento

sono ancora bella

mi ha detto

la notte

tacendo


ascolta

la notte

mugolii dell’anima

soltanto


(ho gli occhi chiusi)


la luna canta

io la sento

il coro suo non dorme mai

tutta la notte solo per lei


(ho gli occhi chiusi)


il fiore si strizza

la notte

gli toglie il respiro


(ho gli occhi chiusi


la terra profuma

dall’acqua rapita

estrae la vita

la notte è suo padre


ho gli occhi chiusi


aspetto ancora


riempio il mio petto di notte


sono scomparsa con lei!

Federica,Luna Bello

A palazzo Oro Ror

Nel cuor della notte, ogni notte,
la veglia incomincia a palazzo Oro Ror.
In riva allo stagno s'innalza il palazzo,
soltanto lo stagno lo guarda perenne e lo specchia.

Già lenta l'orchestra incomincia la danza,
la notte è profonda.

Comincian le dame che giungon da lungi,
discendon silenti dai cocchi dorati.
Dei ricchi broccati ricopron le dame,
ricopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati.

Finestra non s'apre a palazzo Oro Ror,
ma solo la porta, la sera, pel passo alle dame.
In fila infinita si seguono i cocchi dorati,
discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati.
Lo stagno ne specchia l'entrata,
e l'oro dei cocchi risplende nell'acqua estasiata.

L'orchestra soltanto si sente.
Si perde il vaghissimo suono
confuso fra muover di serici manti.
La veglia ora è piena.
Di fuori più nulla.
Silenzio.

Un cocchio lucente ancora lontano risplende,
s'appressa più ratto del vento
e rapida scende la dama tardante.
Se n'ode soltanto il leggero frusciare del serico manto.

Il cocchio ora lento nell'ombra si perde.

Aldo Palazzeschi

NOTTE

Fin dall’antichità l’uomo si è chiesto perché esistessero la Notte e il Giorno.

Il più primitivo metodo per spiegarsi il perché delle cose è il dare un significato divino alle ultraterreno all’inspiegabile.

La civiltà Greca, infatti, aveva dato alla Notte e al Giorno una provenienza divina.

L’essere più antico era il Caos generatore di tutte le cose e anche della Notte.

Ma Caos non generò anche il Giorno bensì fu la notte a farlo.

Perché mai la Notte fu la madre del giorno?Ci sarebbe sicuramente più facile porli sullo stesso piano invece non è stato così.

L’uomo ha volutamente mettere in rilievo la notte rispetto al giorno perché essa è avvolta da un mantello di mistero.

La Notte è sempre stato per l’uomo un argomento pieno di misticismo.

Spesso associata all’oscurità simboleggia, la parte più oscura ma allo stesso più affascinante. L’uomo ha paura della Buio perché l’uomo privato della vista è vulnerabile e questo suo essere indifeso l’ha portato ad associare tutto ciò che riguarda le tenebre al Malvagio.

La Luce è simbolo del bene universale del giusto ma il Giorno appare come un libro aperto ormai privo di tutti i segreti.

Ma questa interpretazione che ormai è diventato uno stereotipo universale lo possiamo riscontrare in tutti i credi e in tutte le religioni ed è curioso come l’uomo, nonostante vivesse in territori lontani, sia stato condotto dall’istinto ad agire in modo analogo. L’unico spiraglio di luce nel profondo buio della notte è la luna.

Ma la luce della luna non è una luce pura, non è una luce vera ma al contrario la luna brilla di una luce riflessa.

Anche essa è stata oggetto di mito a causa della sua misteriosa luce e a causa della mutevolezza periodica del suo aspetto che ha suscitato non poca curiosità.

Ancora oggi molte persone scettiche nei confronti dell’astrologia in generale credono, invece, che la Luna abbia una particolare influenza sui fatti terreni.

Svariati pittori e poeti hanno trasmesso attraverso le loro opere le proprie sensazioni riguardo a questo tema: alcuni vedono nella Notte la tranquillità più assoluta mentre per altri rievoca sentimenti particolari che spesso si cerca di mettere a tacere.

Alcuni studiosi hanno dimostrato che la notte ha una particolare influenza sul carattere dell’uomo e cambia a seconda della persona e ciò rende questo momento della giornata ancor più magico.

Abbraccio notturno

Notte…


al suono evocatore della sola
parola
la mente rivive scenari che detengono
il potere ancestrale
di un ululato.


Seduta,
avvolta dall’atmosfera purpurea
di questo atteso tramonto
mi raccolgo
in un profondo respiro....


compresa
nella mia languida contrizione
vengo raggiunta
dai primi familiari
plumbei toni
del manto notturno

che si appresta a scendere
sulla mia bramosa fame
di silenzi...

in pochi attimi la memoria ripercorre
con nostalgica frenesia
le sconfinate ore del nostro ultimo incontro,

cara Notte…

il sapore di poche vivide immagini
sconvolge e allontana
il ricordo della mera quotidianità diurna.

Ancora una volta
per tutta la durata della tua oscurità
io mi sentirò
libera,
incondizionatamente libera
di creare e disfare
i miei segreti…

cara Notte…

la più quieta culla per un dolore privato,
la più complice compagna
per un delirio troppo a lungo celato.

Notte gelida e tersa
che intorpidisci ogni sterile e vana attività
e dispieghi l’entusiastico potere della fantasia !

La pervasività di questa scura coltre
impenetrabile da estranei
mi rassicura
e concede alla mia mente di dissetarsi
del suo insolente desiderio di assoluto…

e quando sovviene la cogente luce dell’alba
non trova in me l’arrendevole imperativo
del risveglio,
ma lo strenuo impeto
della mia volontà
che sgorga ininterrotta da una fame di
intima follia
non ancora appagata.

Arrighi Giulia

Notte

Avvinghiato alle coperte morirei, stanotte non si fugge dalla veglia. L'aria di questa stanza è pesante, spessa come il dente d'un uomo e così t'azzana al braccio e al collo; la vedi mentre strappa la pelle dalla carne e la carne dall'osso e il tempo dalla vita. Non ti concede il dono di scoprirti a cuocere sotto il sole, nè ti permette di sentir possibile il sole di domani. Come se tutto morisse stasera, come se tutto fosse già spento. Giostra buia, i cavalli di legno e cera stanno stesi al suolo. Loro non dormono dritti sulle zampe come gli altri, son falsi, e rimangon stesi come i corpi non più vivi, uccisi dalla notte.
Il sale della cena non si stacca dalla lingua e s'incrosta nelle pieghe delle mani e dei piedi, quasi a farmi sabbia. Tutto sabbia, come il deserto, come i castelli dei bambini. E così davvero mi sento! L'acqua mi ammorbidisce, il vento mi disfa, il sole m'asciuga e mi spezza. Son contadino, son fatto di terra, la stessa che coltivo. Presto fioriranno pure le gemme che ho nelle mani, farò frutto come un ulivo, oppure fiori come il mandorlo. Poi tutto cadrà, la pioggia, i fiori, i frutti, il cielo, le foglie... Tutto sarà nutrimento per le mie radici marce e profonde. Doglie.

La mia donna porta il nome della madre del mondo, porta i figli nel ventre, farà frutto anche lei, porta il cuore mio in un lembo di veste, porta il nome mio in un brano del cuore, porta il calore anche nella notte... Da me non accetta più doni, squote le mura per fare il suo gioco, piange per gioco e per gioco muore ogni giorno. Sale la mattina così come sale il sole, accende gli occhi suoi chiari, altrimenti il cielo non si schiarisce. Caccia la notte, e la notte che scende la cambia di pelle. Pallida e rossa e pallida ancora, pare la luna e pare che danzi. Quando la mia donna dorme, son'io a sognare per lei, ho parole che son semi alla sera, e son fiori dentro al sonno. Sussurro a lei che dimentica, a lei che più non sa soffrire, a lei che dorme, che sogna.

Calogero Rotolo

notte...

paura di non vedere
di non riuscire a scoprire
ancora
il giorno
la luce....
lei che fra le mie braccia
mi coccola ancora
lei
che con un suo bacio
schiude le mie labbra
e gli occhi
i pensieri
libera i sogni
e fugge gli incubi
sono le 8
e' tardi
devo alzarmi...
il sole e' sorto
adesso
la notte e' passata
desiderio che mi tormenta
dormire ancora
chiudere gli occhi
per sognarla
ancora.

Alessandro Alderigi

IL PUNTO NERO

All’interno della parola volgare notte, è presente la radice not- che già fa pensare a tutto ciò che non è, al nothing, alla not-thing, qualcosa che viene definita dal suo contrario. I maestri dello spleen e gli esistenzialisti godranno nell’ immergersi nell’etimologia e nella definizione di notte tramite tutto quello che non è, ma non è opportuno veramente stare a definire qualcosa che non è, delineandola tramite confini di contrari. Uno spreco di tempo. Come anche parlare dell’effetto stupefacente di Notte, con quel fascino del “mentre gli altri dormono” io domino, io e la luna dominiamo, e da sovrani ci soliloquiamo a vicenda, onanisticamemente gloriosi a far scendere le stelle a merenda.

Un notevole spreco di tempo; per non parlare dei buchi lasciati nell’universo con le nostre tarlazioni.

E peggio ancora sono i ricami romantici sulla trama della notte: fredda come una lama d’argento fendispiriti, silenziosa come un’amante, affascinante e torbida come una tazzina di caffè ondulante, viva, nebbiosa, assassina e maliziosa oppure quelle toppe pulp condite di muffa violenta e cinica: madre delle mignotte, protettrice delle blatte, una lattina di chinotto ricolma di sperma azzurro fosforescente, laghi di manti candidi che come mantidi affondano aghi di follia sul mio sangue che cola via.

Uno spreco di immaginazione.

Ed ecco il mio spreco di sincerità: la notte non è che il tempo in cui l’uomo non è adatto a vivere. Veramente, punto e accapo. Non siamo adattati a vivere di notte. Basta solo pensare che siamo organismi che campano con la vista e di notte non vediamo un cazzo. Ciechi, completamente. Il nostro corpo, che ne sa sicuramente più della nostra misera coscienza o volontà, si organizza e in casi di cecità acuisce gli altri sensi. Tutti in coro: l’udito! Col cavolo! Invece è il tatto, il sostituto ideale, anzi forse migliore per alcuni versi: ci dona un ruolo più attivo rispetto alla visione passiva. Nella notte lavorano le mani e la bocca. E immagino subito giù qualcuno a tradurre questa idea in una cosa alternative naif: la notte è fatta per essere palpata o succhiata o sezionata o suzionata.Uno spreco di dettagli. Comunque… Non ditemi che ricordate meglio un pene, un culo, delle tette, una vagina, una bocca, i capelli, i retri e i lobi delle orecchie, le spalle, le cosce, le caviglie e i peli e la bocca e qualche minuscolo centimetro di pelle che scatena sfavillanti euforie che cambiano da partner a partner, attraverso la vista! Vi cieco un occhio! Di sicuro con il tatto esploriamo il mondo da molto più vicino, limitato a dove possiamo arrivare con le mani, quindi c’entra sicuramente con la paura e la paura con la società e la società con la ribellione. Ma, cari esseri notturni pipistrellofili e seguaci dell’oscurità, io vi ammiro, ma non fate come l’essere inetto diurno stretto tra norme sociali etiche e morali che dà troppa importanza ad un semplice intervallo di tempo. Ogni notte, in fondo, è una piccola prova di coraggio. E se avete paura, chiudete gli occhi.




Morte Zen

Guida alla rivista

mensilmente verranno pubblicati testi, articoli, poesie, disegni o qualunque espressione del pensiero relativi ad un tema che è, volta per volta, scelto dalla redazione.

il tema sarà comunicato 20 giorni d'anticipo sul sito, per dare a tutti la possibilità di esprimersi ed inviare alla redazione i propri elaborati.

Il tema del prossimo mese sarà "Notte" .
Vi preghiamo di inviarci il materiale entro il 2 aprile 2007.

Per ragioni di spazio solo alcuni pezzi potranno comparire sulla copia cartacea della rivista, che potete trovare alla sala da tè "Madamadorè" in via S.Martino 90 (Pisa).

parolelibere(at)gmail.com

Parole Libere

Le parole P A R L A N O
A volte stridono avvolte consonano

Le parole insinuano il sospetto
e
Traggono in inganno

Le parole susssssssurrate
pianissssssimo
pungono

DETTE FORTISSIMO
UCCIDONO

Le parole
avvolte
si innamorano

a volte
invece
odiano
allora
è
GUERRA
Gli uomini fanno la guerra?
no mi spiace signori sono le parole a farla
quelle forti quelle che decidono
quelle
non gli uomini col fucile

le parole hanno fantasia

le parole sono ricche
e
sono povere


Le parole hanno anche le catene
Hanno certo molto pudore
il rispetto dite?
no
l'ipocrisia credo
le parole si
indossano l'ipocrisia
dopo aver fatto il nodo alla cravatta si infilano ai piedi l'ipocrisia!

Ogni giorno muoiono
le parole
soppresse
nel cervello
prima
e se sopravvissute
tra i denti
poi


Cari miei
ho tolto le catene
alle mie parole
ho detto loro "divertitevi!"
adesso spero mi ascoltino
spero
siano libere
da me
prima
da voi
poi


Federica Bello

Triangolo Rosa

ROSA è una parola dai molteplici significati.
Per molti Rosa è sinonimo di sentimento profondo, passionalità e purezza….ma non per tutti.
Ad alcuni il colore rosa rievoca brutti ricordi risalenti al periodo nazista quando cucito sul petto degli omosessuali c’era un TRIANGOLO ROSA.
La condizione degli omosessuali al tempo nazista non è chiara a tutti perché spesso sottaciuta. Ben pochi sanno che i gay venivano utilizzati come bersaglio dai tedeschi durante le esercitazioni con le armi. La verità è che gli omosessuali erano trattati anche peggio degli ebrei e per questo motivo spesso cercavano di impossessarsi di una stella di David da sostituire al proprio triangolo.
Le porte dei campi di sterminio si aprirono presto per gli omosessuali tedeschi che già dal 1933 iniziarono ad essere deportati in vari campi di concentramento.

A differenza di ebrei e zingari non vennero deportati omosessuali non tedeschi perché loro venivano rifiutati per il semplice fatto che i gay, essendo incapaci di riprodursi , non contribuivano all’ampliamento del Reich e, siccome la percentuale di gay era del 7-10% della popolazione, iniziarono ad essere puniti legalmente.
Gli SS si accanivano specialmente contro di loro e, per capire cosa portasse loro ad un comportamento non eterosessuale, praticavano sui loro corpi esperimenti scientifici quasi sempre mortali.
Questo fece si che il tasso di suicidio maggiore appartenesse proprio a questa categoria di persone e che i due terzi degli internati omosessuali morisse nel primo anno di reclusione.
La più grande legge anti-omosessuale era l’articolo di legge n 175 che portò in tribunale più di 60.000 gay.
Ma i Triangolo Rosa non erano considerati criminali solo dai tedeschi ma anche da inglesi e dagli americani. Dopo la liberazione gli omosessuali paradossalmente non riacquistarono la libertà ma furono costretti a scontare i loro anni di reclusione senza contar gli anni di permanenza nei campi di concentramenti come anni di galera.
Ormai noi non possiamo cambiare il passato ma ci dobbiamo dedicare al presente senza però dimenticare il passato.
La giornata della memoria serve proprio a questo, cioè a far ricordare a tutti gli orrori commessi dalla politica nazifascista.
E soprattutto le vittime causate da essa, ma qualcuno ricorda di aver mai sentito parlare del triangolo rosa durante questa ricorrenza?
Purtroppo l’ostracismo nei confronti del Triangolo Rosa e degli omosessuali persiste e loro per paura del giudizio della massa si nascondono dietro finte personalità.
L’unico monumento dedicato alle vittime omosessuali degli anni 30 si trova ad Amsterdam , il “Homomonument” situato a WestMarkt Square non lontano dal centro della città.
L’ Italia come molti altri paesi non possiede alcun monumento dedicato a questa categoria di vittime forse per vergogna o forse per ignoranza e non tutti hanno capito che l’uomo non può essere libero se trattato in maniera diversa a seconda dell’orientamento sessuale.
Davide L’Incesso

Il Rosa dell’Alba

Rosa l’alba di questo giorno che sarà rossa dei fuochi al tramonto.
I rumori che provengono dal campo degli Achei avvertono le nostre sentinelle che i barbari stanno preparando le loro pesanti armature.
Un sol uomo di bronzo affronterà il gigante di pietra.
Prego te Atena, reggi forte la mia mano: non farmi cadere lo scudo, salda sostieni la mia lancia.
Combatterò al fianco del prode Ettore.
Migliaia di uomini saranno il suo braccio ed il suo nome entrerà nella storia.
Ma a mio figlio nessuno dirà che a fermare le frecce dei Greci, a salvare il nostro Principe ero io.
Rosa il colore del cielo in questa alba, ma vermiglio il tramonto, bagnato dal nostro sangue.
I figli di Ilio, anche oggi, si immoleranno per colpa dell’Amore
Marco Franchini

Uomini in Rosa

Pink Anderson e Floyd Council. Avete già capito di cosa si tratta.
Nasce così, dall’esigenza di rendere omaggio su omaggio: nel caso qui sopra citato di tributare a due grandi bluesman (i signori Anderson e Council appunto) l’onore di far parte, se non essere l’embrione, di una leggenda, di una stella che segnerà il cammino di gran parte della musica post ’60; nel mio, invece, di addentrarmi nei suoni, nella materia e nei contorni di questa storia orchestrale.
Immaginiamo un pomeriggio come tanti di un anno, il 1965, come tanti, ma anch’esso preludio di un sogno: un critico musicale di primo livello scrisse: ”se la musica è spazio e tempo, i Floyd la sanno suonare al meglio, spingendo spazio e tempo verso orizzonti senza fine”; pionieri di un panorama in fermento –quello londinese di fine anni ’60- e portatori di questa “fiamma rosa”, i giovani londinesi sono da considerare figli del loro tempo e al contempo padri del medesimo “tempo musicale”.
Mi piace immaginare che tutto sia nato in un contesto a me –a noi- così vicino: quello universitario che accende, nell’immaginario di chi è disposto ad esporsi a nuove, infinite e circolari proposte, una “dottrina multicolore”, traduttrice di molti temi cari alla letteratura di fantascienza che spezza i canoni classici dell’interpretazione rock e propone una scrittura diversa, risultato di mescolanze sonore di diverse origini (dai canti gregoriani a contaminazioni classiche come Debussy).
Tre personaggi, i giovani Roger, Nick e Rick ( i signori Waters, Mason e Wright) e un idolo delle folli notti in technicolor della Londra beat ’60 psichedelica, il giovane “pittore” Syd (deus-ex-machina Barret); la follia lucida del giovane visionario e la sua capacità di creare un mondo tutto suo, si sposa con la proposta dei tre novelli musicisti, suoi imberti coinquilini (tra hi-fi, chitarre, cuscini, libri e quadri), di proiettarsi in un futuro immediato fatto di note e non di pittura; paradossalmente il risultato è un ancestrale connubio non solo tra pittura e musica, ma tra forme lontane di arte avanguardistica, alimentate da una “sana schizofrenia” (iniziale intendiamoci!!) e dal desiderio di viaggiare ai confini dell’immaginario –“guardando” così la terra dalla luna.
La cronologia vuole una storia folle, fatta di acidi e di visioni frustranti e paranoiche che portano il giovane Syd a infrangersi su quel “muro del suono” che egli stesso aveva plasmato; ma questa è storia! Che Barret abbandoni per scelta o sia costretto a farlo poco importa perché David (Gimour) è pronto a proiettarsi in quella “pazzia lucida”, in quel tutto senza parti che è il “the Pink Floyd sound” –uso non convenzionale di feedback, distorsioni, riverberi, sovraincisioni, passaggi “strani”. Gilmour lega benissimo con quei suoni inestricabili, fili invisibili del cotone idrofilo (i Floyd in realtà non sono mai stati veramente del chitarrista Barret ma divennero totalmente di Gilmour con il battesimo spaziale di “The Dark Side Of The Moon”: Alan Parson tecnico del suono e l’idea di una società contemporanea caotica e vittima di follie e manie; la maestria dei quattro uomini in rosa e la loro padronanza tecnica, crea uno scenario cauto, profondo, limpido e sottile, proiettato nel futuro).
Nell’ anno 1966, così detto della “crisalide”, i Beatles sono già un’istituzione e la nuova generazione persa in fantomatici festini all’insegna dell’LSD (la pazzia degli acidi) e alla sfrenata ricerca di una meta, sente l’esigenza di essere coinvolta in esperienze lisergiche che band come i Cream, Greateful Dead, Hendrix’s Experience, Who e Pink Faires –e moltissimi altri- relegano a performance che viaggiano oltre le frequenze sonore, si svincolano dagli obblighi di sequenza e approdano in visioni “live” (vere e proprie immersioni metafisiche). La location londinese che tentava in quegli anni di realizzare il grande sogno era l’”Ufo Club”; espressione di un’arte totale, multimediale con suonatori di sitar e di free jazz, proiezioni di Warhol e Bunel e poeti strambi e psichedelici. Il contributo che i Pink danno è quello appunto di sconvolgere il mondo distorto dei freak; da un album come “The Piper…” brani come “Astronomi Domine” e “Interstellar Overdrive” sfociano in un clima tirato fino alla nausea e all’esasperazione.
Chi ascolta i signori dello spazio all’opera nelle plurime versioni in circolo, conosce l’evoluzione compositiva che il gruppo ha mostrato pur non discostandosi dalla formulazione sonora di un sogno: “A Saucerful Of Secret” (1968), “More” (1969), “Ummagumma” (1969), “Atom Heart Mother” (1970), “Meddle” (1971), “Obscured By Clouds” (1972), “The Dark Side Of The Moon” (1973), “Wish You Were Here” (1975) e “Animals” (1977) sono le mete di un percorso obliquo che ha forza nel suo essere, insieme, nitido, limpido e nebuloso; una “M”usica che trova ampio respiro anche in produzioni legate all’arte del cinema (di Antonioni primo fra tutti); la celluloide si serve del loro sound per creare un’ astratta confezione sonora che tramuta poi in icona giovanile di libertà e vita (desolante e un po’ controversa!), giunta fino a noi e mutata solo nella forma.
Seduti al cinema in poltrona o nei momenti di maggiore intimità, negli strumenti di questi uomini scesi dalla luna, vi è il potere e il semplice respiro di dar vita a un suggestione che ancora oggi riesce a generare un’emozione avvolta, soffice, quasi una seconda pelle.
Giuseppe Càssaro

Labbra di Veleno

Vorrei strapparmi la bocca
la stessa che tu paragoni
ad un bocciolo di Rosa

Vorrei mordermi le labbra
tanto da farle sanguinare
perché si avvicinano a labbra
Straniere
cercando le tue

Vorrei non avere più la bocca,
quei due petali vermigli
che non riescono a dirti
quello che sai già.

Vorrei non aver mai
baciato la tua bocca
fiore spinoso
che ha iniettato in me il veleno.

Rachele Massei

Puntinismo Elettronico ed Emozioni Rosa



La tela qui di fianco ci appare come un mosaico mal composto in cui i tasselli forse mossi da un alito di vento si mescolano nella tela lasciando intravedere solo
un’ immagine sfocata di donna .
Si potrebbe pensare a Paul Signac e Gorges Seurat quindi ad una rivisitazione del Puntinismo di fine Ottocento e primi del Novecento;
invece no, infatti quello di Salvatore Polistena è un Puntinismo Elettronico, l’artista ha evidentemente cercato di fornirci un’ immagine familiare,
un’ immagine che in sostanza rappresenti il nostro secolo,
un’immagine cioè televisiva: se ci pensiamo bene la televisione è diventata, per moltissimi, indispensabile come l’energia elettrica o l’acqua corrente. L’immagine televisiva è un fascio di punti elettronici che si compongono nella cosiddetta Trama Televisiva e questo quadro è un esplosione di punti luminosi, punti che vibrano trasformando la luce in tante sfumature diverse di uno stesso colore: il Rosa.
Potremmo però avanzare anche un’altra ipotesi: l’immagine della donna ritratta si compone nei ricordi del pittore pian piano, un pezzo alla volta, eppure i frammenti sono continuamente disordinati e nonostante il grande sforzo questa è l’unica immagine che la memoria fornisce agli occhi della mente dell’artista.
La realtà scivola attraverso il Polistena lasciando in lui soltanto la sua essenza, il suo profumo ed il suo colore sgretolandosi poi in un impasto armonioso con la sua anima. Da quel connubio misterioso
sorge la stessa dimensione dell’autore, la sua fantasia e la sua Arte.
Non può mai giungere nitida l’immagine della realtà attraverso lo sguardo del pittore: essa infatti propone al mondo solo il ricordo sfumato e vago di un giorno in cui quella donna ha regalato all’autore un’emozione Rosa.
Federica Bello

Per un’Idea

Quello che Luce provava davanti ad un fiore era qualcosa di indescrivibile.
Dapprima arrivava il profumo, con le sue mille sfumature entusiasmanti. Poi, quando apriva gli occhi, ecco la bellezza disarmante, la perfezione. La delicata voglia di vivere. Per mostrarsi, diffondere il proprio effluvio, protendersi con tutte le proprie forze verso il sole. Farsi amare. Per un giorno, anche uno solo.
Tutte le immense ricchezze di Luce, tutto, valeva meno di una giornata passata nei suoi giardini in primavera. Storditi dalla bellezza e dal profumo dei fiori. Ovunque, fiori.
Era bella, Luce, bellissima. Come una rosa. E proprio la rosa era il suo fiore preferito.
Perché era come lei: attraente, fragile. Ma dura, testarda, tanto da riuscire a crescere fra le rocce, nei punti più impervi.
La vita di Luce finì nella primavera del 1843, quando il medico le diagnosticò una terribile allergia patologica. Sarebbe morta, se avesse passato anche solo un’altra giornata nei giardini in fiore.
Lei ne uscì distrutta. Si ingrigì, appassì, divenne meno solare. I giardinieri non furono più pagati, così come il resto della servitù.
Un anno intero passò. Sola.
Era giovane e bella. Ma triste. Avrebbe potuto continuare a vivere così per chissà quanti anni ancora. Però era testarda, come una rosa. E non voleva arrendersi così.
La primavera era scoppiata con tutta la sua potenza e i giardini di Luce, anche se pieni di erbacce incolte, esplosero di colori e di profumi.
Lei fu vista per l’ultima volta quella mattina di aprile, mentre correva scalza nell’intrico di aiuole, sfumature ed effluvi. I capelli al vento, il sorriso sulle labbra.
Lasciò solo una nota:
Non voglio che il mio corpo venga coperto di terra, ma di petali. Petali di rosa.

Marco Bruschi

Le Rose del Deserto

Nella prossimità del periodo natalizio nelle sale italiane è uscita l’ultima opera (la sessantacinquesima) del grande regista Mario Monicelli.
Il film tratta la storia del terzo reparto della sezione sanità delle truppe italiane presenti in Libia nell’estate del 1940; inizialmente il loro compito sembra più simile ad una missione umanitaria che a fini bellici, ma ben presto gli orrori della guerra li riporteranno alla realtà.
Il film è a mio avviso molto gradevole,certo non paragonabile ai grandi capolavori dello stesso genere come “la grande guerra”.
Ma comunque apprezzabile soprattutto grazie all’enorme sensibilità del regista e alla sua innata capacità di narrare la tragedia con umorismo, in modo da far riflettere senza traumatizzare.
Molto interessante e’ il passaggio da una fase iniziale nel film di particolare quiete al momento in cui la guerra riporta i vari soldati alla realtà; una guerra che abbiamo affrontato in maniera impreparata, e di cui nessuno, dal soldato semplice al più alto graduato, comprende a pieno le motivazioni o i fini (un operazione bellica di cui il regista mostra tutta la futilità).
Una nota negativa può essere considerata la poca considerazione che a mio parere viene attribuita all’ambiente circostante in cui la vicenda si sviluppa; viene mostrato in maniera davvero marginale la maniera di reagire e di interagire dei locali all’arrivo italiano in terra libica, non mostrando il modo in cui il comparto italiano vive l’immersione in una cultura e un ambiente così diverso da quello natio.
Comprendo le necessità di tempo e sceneggiatura che hanno spinto a tale scelta (in fondo il film e’ centrato sull’esercito italiano), ma credo che una maggior interazione tra i due mondi avrebbe permesso di comprenderne meglio le differenze e le comunioni, ad appannaggio di un maggior risalto dei personaggi.
Molto apprezzabili i a tale riguardo i vari attori, dai più rinomati (Pasotti, Haber ed uno straordinario placido nei panni di un prete in missione) alle semplici comparse, molto abili nel creare personaggi ricchi di sfumature e particolarità.
A tutti va riconosciuta la capacità di mostrare i vari aspetti dell’Italia di quel tempo (con le varie differenze derivanti da un diverso ceppo sociale e territoriali) e di come le situazioni più tragiche riescano a far risaltare l’umanità delle persone.
A mio avviso quindi un’opera meritevole, che se anche non può reggere il paragone con le opere del passato del suo creatore, possiede ancora quel tocco che ha reso di Monicelli uno dei maestri indiscussi del nostro cinema.
Purtroppo mi duole constatare (senza un eccessiva sorpresa) di come tale film, pur uscendo in un periodo come quello prenatalizio, sia passato in netta sordina rispetto ai soliti film di natale.
Con tale consapevolezza nel cuore scrivo tale recensione, sperando di informare sulla sua esistenza chi ne era inconsapevole (a causa della misera campagna pubblicitaria), ma soprattutto di convincere chi lo ha sottovalutato di avere un'altra occasione di vedere un bel film, carico di tutto l’umorismo e la poesia di un maestro del nostro cinema, che ha ancora tanto da trasmetterci.
Paolo L’Incesso

Lasagne al Pesto

Tra i fornelli di “Nonna Rosa” si è celebrato il più riuscito dei matrimoni, di quelli destinati a non cadere nel “letargo di abitudini”, come diceva O. Wilde, ma anzi a rinnovare ogni giorno le sue promesse.
I coniugi sono due fra i capisaldi della cucina mediterranea: la Melanzana, il frutto del sole, buona in ogni sua forma, fritta, ripiena, alla griglia, alla parmigiana e la Lasagna, appetibile al solo nominarla, familiare, stuzzicante, accogliente.
Per soddisfare, poi, tutti i palati ed accontentare tanto i golosi quanto gli irriducibili sostenitori della dieta, prescinderemo dalla frittura.
Il Pesto si ottenga frullando le melanzane precedentemente cotte in forno a 180° per circa 30’ avvolte in un foglio di stagnola, continuando a frullare si aggiungano basilico, olio, latte nella proporzione desiderata, parmigiano ed aglio.
Il pesto dovrà risultare cremoso e non troppo denso, si ricoprano interamente gli strati di lasagna e la si cuocia direttamente in forno a 180° per circa 30’ in una teglia coperta di stagnola.
E cosi i soffici strati della lasagna accolgono la melanzana, che per lei si è fatta crema, per meglio penetrare in ogni sua feritoia.
A cottura ultimata si scopra la lasagna e si cosparga l’ultimo strato di abbondante parmigiano e si ripassi in forno a gratinare per dieci minuti.
Il connubio è così realizzato. A discrezione di chi si accosta a questa ricetta la scelta di aggiunger mozzarella tra i vari strati della Lasagna.
Dalla cucina di “Nonna Rosa” Buon appetito!

Sono Fiorite Le Rose

Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
Così dimenticammo le rose.

(Dino Campana
per Sibilla Aleramo)