Uomini in Rosa

Pink Anderson e Floyd Council. Avete già capito di cosa si tratta.
Nasce così, dall’esigenza di rendere omaggio su omaggio: nel caso qui sopra citato di tributare a due grandi bluesman (i signori Anderson e Council appunto) l’onore di far parte, se non essere l’embrione, di una leggenda, di una stella che segnerà il cammino di gran parte della musica post ’60; nel mio, invece, di addentrarmi nei suoni, nella materia e nei contorni di questa storia orchestrale.
Immaginiamo un pomeriggio come tanti di un anno, il 1965, come tanti, ma anch’esso preludio di un sogno: un critico musicale di primo livello scrisse: ”se la musica è spazio e tempo, i Floyd la sanno suonare al meglio, spingendo spazio e tempo verso orizzonti senza fine”; pionieri di un panorama in fermento –quello londinese di fine anni ’60- e portatori di questa “fiamma rosa”, i giovani londinesi sono da considerare figli del loro tempo e al contempo padri del medesimo “tempo musicale”.
Mi piace immaginare che tutto sia nato in un contesto a me –a noi- così vicino: quello universitario che accende, nell’immaginario di chi è disposto ad esporsi a nuove, infinite e circolari proposte, una “dottrina multicolore”, traduttrice di molti temi cari alla letteratura di fantascienza che spezza i canoni classici dell’interpretazione rock e propone una scrittura diversa, risultato di mescolanze sonore di diverse origini (dai canti gregoriani a contaminazioni classiche come Debussy).
Tre personaggi, i giovani Roger, Nick e Rick ( i signori Waters, Mason e Wright) e un idolo delle folli notti in technicolor della Londra beat ’60 psichedelica, il giovane “pittore” Syd (deus-ex-machina Barret); la follia lucida del giovane visionario e la sua capacità di creare un mondo tutto suo, si sposa con la proposta dei tre novelli musicisti, suoi imberti coinquilini (tra hi-fi, chitarre, cuscini, libri e quadri), di proiettarsi in un futuro immediato fatto di note e non di pittura; paradossalmente il risultato è un ancestrale connubio non solo tra pittura e musica, ma tra forme lontane di arte avanguardistica, alimentate da una “sana schizofrenia” (iniziale intendiamoci!!) e dal desiderio di viaggiare ai confini dell’immaginario –“guardando” così la terra dalla luna.
La cronologia vuole una storia folle, fatta di acidi e di visioni frustranti e paranoiche che portano il giovane Syd a infrangersi su quel “muro del suono” che egli stesso aveva plasmato; ma questa è storia! Che Barret abbandoni per scelta o sia costretto a farlo poco importa perché David (Gimour) è pronto a proiettarsi in quella “pazzia lucida”, in quel tutto senza parti che è il “the Pink Floyd sound” –uso non convenzionale di feedback, distorsioni, riverberi, sovraincisioni, passaggi “strani”. Gilmour lega benissimo con quei suoni inestricabili, fili invisibili del cotone idrofilo (i Floyd in realtà non sono mai stati veramente del chitarrista Barret ma divennero totalmente di Gilmour con il battesimo spaziale di “The Dark Side Of The Moon”: Alan Parson tecnico del suono e l’idea di una società contemporanea caotica e vittima di follie e manie; la maestria dei quattro uomini in rosa e la loro padronanza tecnica, crea uno scenario cauto, profondo, limpido e sottile, proiettato nel futuro).
Nell’ anno 1966, così detto della “crisalide”, i Beatles sono già un’istituzione e la nuova generazione persa in fantomatici festini all’insegna dell’LSD (la pazzia degli acidi) e alla sfrenata ricerca di una meta, sente l’esigenza di essere coinvolta in esperienze lisergiche che band come i Cream, Greateful Dead, Hendrix’s Experience, Who e Pink Faires –e moltissimi altri- relegano a performance che viaggiano oltre le frequenze sonore, si svincolano dagli obblighi di sequenza e approdano in visioni “live” (vere e proprie immersioni metafisiche). La location londinese che tentava in quegli anni di realizzare il grande sogno era l’”Ufo Club”; espressione di un’arte totale, multimediale con suonatori di sitar e di free jazz, proiezioni di Warhol e Bunel e poeti strambi e psichedelici. Il contributo che i Pink danno è quello appunto di sconvolgere il mondo distorto dei freak; da un album come “The Piper…” brani come “Astronomi Domine” e “Interstellar Overdrive” sfociano in un clima tirato fino alla nausea e all’esasperazione.
Chi ascolta i signori dello spazio all’opera nelle plurime versioni in circolo, conosce l’evoluzione compositiva che il gruppo ha mostrato pur non discostandosi dalla formulazione sonora di un sogno: “A Saucerful Of Secret” (1968), “More” (1969), “Ummagumma” (1969), “Atom Heart Mother” (1970), “Meddle” (1971), “Obscured By Clouds” (1972), “The Dark Side Of The Moon” (1973), “Wish You Were Here” (1975) e “Animals” (1977) sono le mete di un percorso obliquo che ha forza nel suo essere, insieme, nitido, limpido e nebuloso; una “M”usica che trova ampio respiro anche in produzioni legate all’arte del cinema (di Antonioni primo fra tutti); la celluloide si serve del loro sound per creare un’ astratta confezione sonora che tramuta poi in icona giovanile di libertà e vita (desolante e un po’ controversa!), giunta fino a noi e mutata solo nella forma.
Seduti al cinema in poltrona o nei momenti di maggiore intimità, negli strumenti di questi uomini scesi dalla luna, vi è il potere e il semplice respiro di dar vita a un suggestione che ancora oggi riesce a generare un’emozione avvolta, soffice, quasi una seconda pelle.
Giuseppe Càssaro

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